GOLGOTA al Teatro dell’Opera di Roma, le suggestioni di Bartabas
Ci auguriamo che il sovrintendente del Teatro dell’Opera Carlo Fuortes continui a internazionalizzare la programmazione con opere come “Golgota” di Bartabas. Théâtre équestre Zingaro (andato in scena già a settembre al Festival Torinodanza), che a pieno diritto, per la sua contaminazione di arti e performance, fa parte dell’arte contemporanea.
Bartabas (ideatore, regista e coreografo di Golgota) ha portato sul palcoscenico la sintesi di un percorso storico-artistico-iconografico-musicale-coreutico, che inizia dalla Spagna del Seicento (con i suoi riferimenti all’Inquisizione, l’uomo-penitente che si autoflagella). Ma allo stesso tempo è straordinariamente ‘contemporaneo’ per il suo lavoro di ‘sottrazione’ che diventa essenzialità e purezza.
Sottrazione di colori (solo il rosso entra in scena). Il contrasto tra bianchi e neri è lo stesso delle mistiche tele secentesche del pittore spagnolo Francisco de Zurbaràn. Il contrappunto luministico tra luce e ombra ricorda le sciabolate di luce nel buio delle tele di Caravaggio. Ma il riferimento iconografico più immediato è ai “Caprichos” (ultimo decennio del XVIII secolo) di Goya. Lo stesso contrasto tra la luce e il buio della notte e della ragione. La stessa umanità ferina si muove e danza sul palcoscenico come gli uomini con teste di cavallo del pittore sono seduti e leggono.
I personaggi con i cappelli a cono e i frati deformi del pittore aragonese rimandano a quelli di Bartabas. In scena gli stessi cappelli a cono, ma neri, e un sacerdote e una suora nani.
Sottrazione di dialoghi e parole in quello che è il loro luogo deputato: il teatro. L’aria è pervasa soltanto dall’armonia musicale, raffinata e secentesca, dei mottetti dello spagnolo Tomas Luis de Victoria (1548-1611), gesuita compositore, educato a Roma e allievo di Pierluigi da Palestrina. L’armonia celestiale – voce di controtenore di Christophe Baska, cornetta di Adrien Mabire e liuto di Marc Wolff – ha creato non pochi brividi di emozione in platea.
Sottrazione di orpelli folkloristici e costumi dal flamenco che lo stesso Bartabas spiega: «non volevo piombare nel folklore… si è fatta avanti una nuova generazione di danzatori, di cui fa parte Andrés Marin, che hanno ripulito il flamenco della sua immagine e dei suoi luoghi comuni, lo hanno spogliato di tutti gli orpelli e di tutto quanto c’era di artificioso. E tutto questo d’un tratto mi ha colpito. Ho trovato qualcuno con cui far uscire quello che cerco nel flamenco come nell’arte equestre: un approccio fondato sul corpo, sull’ascolto, sul ritmo».
Cosa rimane da questo lavoro di sottrazione? La magia sulla scena.
Una liturgia mistica, sacra e profana, che inizia con l’adorazione di un dio pagano (il teschio) e finisce con la crocefissione di un uomo con gli zoccoli, sacrificio dell’ultimo rappresentante di una umanità non ancora emancipata dal mondo animale e/o in sintonia con esso. Un’umanità che ricorda quella delle ‘Storie dell’umanità primitiva’ di Piero di Cosimo, ben rappresentata dal centauro Bartabas, un cavallerizzo che è tutt’uno con il suo cavallo. Corpi di uomini e animali che si muovono e danzano all’unisono, illuminati da luci sulfuree e una musica invisibile che ne ricorda le origini celesti.
In questi quadri di una bellezza estetica impressionante non è secondario il silenzio e la presenza degli splendidi cavalli in scena.