Intorno alla 57. Biennale di Venezia, Jan Fabre e il Sumo giapponese
Location suggestive per due interessanti mostre a Venezia. L’Abbazia di San Gregorio per Glass and Bone Sculpture 1977-2017 di Jan Fabre e Palazzo Morosini per la mostra giapponese Kokodé Kamigami.
Nell’abbazia di San Gregorio del IX secolo, Jan Fabre (Anversa 1958) torna a espore – dopo la sua personale a Firenze: https://www.antonellacecconi.it/jan-fabre-a-firenze/ – le sue opere in Italia per gli eventi collaterali della Biennale. L’abbazia, sede di abati benedettini (chiusa al culto nel 1808, adibita a uso abitativo e poi a officina della Zecca per la raffineria dell’oro) si trova accanto alla basilica di Santa Maria della Salute, tra il ponte dell’Accademia e Punta della Dogana.
Sono circa quaranta preziose opere in vetro e ossa realizzate dall’artista fiammingo in quaranta anni di lavoro. Una riflessione, attraverso la trasformazione della materia, su la vita e la morte. Jan Fabre usa dei materiali, vetro (materiale inorganico) e ossa (materiale organico), apparentemente duri e fragili, come la vita.
Fabre recupera l’antica arte vetraria muranese e la tradizione pittorica dei maestri fiamminghi che miscelavano ossa triturate con i pigmenti colorati. Evoca l’alchimia che operava la trasmutazione dei materiali. Opera una metamorfosi: la trasformazione dei corpi di animali in scheletri e del vetro in sculture preziose. Innesca una dialettica degli opposti: durezza e fragilità, vita e morte, opaco e lucido, trasparente e compatto.
Vetro e ossa, fragili, sono espressioni della caducità della vita, che trova la sua manifestazione in quelli che sembrano spermatozoi di vetro sulla serie dei Planet. I teschi in vetro, esplicita riflessione sulla morte, sono di colore blu, quello tipico della penna Bic che l’artista belga predilige da anni. La sua arte presente, contemporanea, abita un luogo ricco di storia e dialoga con esso così come con l’artigianato muranese.
Ancora due giorni per visitare la singolare mostra giapponese Kokodé Kamigami (“qui si incarnano gli dei”) ospitata nel seicentesco Palazzo Morosini, aperto al pubblico grazie alle Generali.
Attraverso 33 opere l’artista giapponese Daimon Kinoshita (incisore di ukiyo-e) e il fotografo francese Philippe Marinig illustrano l’universo della forza, dell’intelligenza e dell’accettazione di sé dei lottatori di sumo: i sumotori, che diventano rikishi da professionisti.
Gli artisti raccontano le origini di questa antica lotta, sport nazionale giapponese, dove i contendenti, immortalati dalle foto di Marinig, si allenano nelle heya (le palestre dette anche scuderie) o si affrontano nel dohyo (la zona di combattimento), indossando il mawashi (il caratteristico perizoma) e acconciando i capelli con la oi-cho mage (la singolare crocchia).
Nelle opere in mostra anche la rappresentazione dello yokozuna, campione per eccellenza identificabile dalla pesante corda annodata detta tsuna, durante l’ingresso sul dohyo. A questo è dedicata un’intera sezione che narra il successo del giapponese Kisenosato, il 72° yokozuna in tutta la storia del Sumo lunga più di 400 anni. Kisenosato, dopo aver vinto il torneo Grand Sumo di Spring 2017, ha raggiunto il successo a distanza di 19 anni dall’ultimo yokozuna giapponese.
Giunto dall’Occidente, Philippe Marinig ha trascorso circa dieci anni in Giappone e impiega la fotografia per interpretare lo spirito del Sumo.
Da oltre tre decenni, il giapponese Daimon Kinoshita disegna e dipinge opere ispirate allo stesso tema secondo tecniche tradizionali. Da questo dialogo artistico è nata questa mostra a quattro mani.
Attraverso la sensibilità e lo sguardo degli artisti si percepisce il carattere universale dello spirito che pervade i lottatori, veri e propri semidei. Le opere fermano l’attimo dei loro movimenti lenti, rituali e codificati da secoli. Le immagini bloccano la straordinaria potenza dei corpi pesanti, ma agili, che ingaggiano una lotta fatta di astuzia, resistenza e self-control.
I lottatori si confrontano sotto lo sguardo delle divinità, disposte ai quattro punti cardinali: Seiryū il drago, Suzaku la fenice, Byakko la tigre e Genbu la tartaruga, che sorreggono lo spazio e vegliano sul dohyo. I rumori sordi e profondi dei colpi battuti sul pavimento sono parte integrante della lotta. Nella mitologia il verde, il rosso, il bianco, il nero, corrispondono al drago, alla fenice, alla tigre e alla tartaruga, disposti ai quattro punti cardinali che sorreggono lo spazio e vegliano sul cerchio (sedici metri quadrati) dei lottatori. Sono l’incarnazione dei Kamigami, le divinità protettrici della vita. Tra cielo e terra i sumotori trovano la loro forza.
Foto di Marco De Felicis
Jan Fabre – Glass and Bone Sculpture 1977 – 2017
Abbazia di San Gregorio (Dorsoduro 172)
Ingresso libero
Orari: da martedì a domenica h. 11 – 19
Fino al 26.11.2017
Catalogo Forma edizioni
A cura di Giacinto DI PIETRANTONIO, Direttore GAMeC, Bergamo
Katerina KOSKINA, Direttore EMST, Atene
Dimitri OZERKOV, Responsabile del Dipartimento di Arte Contemporanea del The State Hermitage Museum, San Pietroburgo
Kokodé Kamigami
Palazzo Morosini – San Marco 2803 – Venezia
Orario apertura: Tutti i giorni dalle ore 10.00 alle ore 19.30
(L’accesso è consentito fino alle 19.00)
La mostra è curata da Xavier Martel
Ingresso libero
Fino al 16 luglio
Sito della Biennale: https://www.labiennale.org/it/arte/