Roma Bar Show, la kermesse del beverage, ha chiuso con grandi numeri
Dopo il successo della prima edizione di due giorni Roma Bar Show guarda al futuro. I nostri assaggi.
L’atmosfera della prima manifestazione italiana di importanza internazionale, al Palazzo dei Congressi dell’Eur, che ha unito il mondo del beverage e della mixology industry è stata spumeggiante. Una fiera molto seguita dedicata al mondo del bar e dell’accoglienza, che ha visto una massiccia presenza di operatori, di appassionati e della stampa. I numeri: quasi 10.000 presenze, 200 aziende coinvolte, 58 ospiti internazionali, 2000 brand, 10 seminari, 28 sale di degustazione, 8 laboratori e un pubblico entusiasta. Roma è entrata così nel panorama internazionale della miscelazione.
Con un solo biglietto di ingresso è stato possibile testare prodotti, degustare cocktail, partecipare a main seminar, masterclass, RBS Academy, assistere a competition e tanto altro. Interessante l’area dedicata alle tradizioni della liquoristica e distillazione italiana. Un red carpet di liquori, vini, spiriti, birra, distillati e i migliori bartender. In programma anche Fuori Salone ed eventi collaterali dedicati al trade e al consumer.
Tra i seminari, che si sono tenuti in un Auditorium da 800 posti, uno dei più seguiti e interessanti è stato “Mix Italy… Raising the Bar” con Flavio Angiolillo, Patrick Pistolesi e Alexander Frezza.
Le parole chiave: sogno, progetto e business. Flavio Angiolillo ha raccontato il suo “sogno” a venticinque anni: “Avere un locale con tantissima gente in cui tutti erano felici. Cos’ ho aperto un locale e facevo aperitivo e cena. Il locale è andato una merda. Non avevo capito la mia città, ogni città ha un modo di funzionare. A Milano c’è un locale che ha sempre una fila perchè ha il migliore sushi. Un altro ha sempre la fila perchè è la migliore gelateria. Così abbiamo fatto colazione e cocktail la sera. Quello che vi voglio dire è: studiare bene la vostra città, perchè è quello che vi fa guadagnare”.
Alexander Frezza è un bartender napoletano, del bar l’Antiquario, stile speakeasy (o secret bar), nascosto come ai tempi del probizionismo.
Ha iniziato in una società di catering dove lavorava 12-13 ore al giorno, ha abbandonato la facoltà di architettura: “Collaboro con Strega. Bisogna sempre migliorarsi nella vita. I migliori calciatori sono stranieri, così come i migliori barman. I soldi si fanno dove si lavora. All’estero ci sono le migliori squadre. Quando torni a casa alle cinque del mattino non vale niente la passione. Datemi i soldi e fatemi felice, altrimenti non scendo a lavorare. Il segreto dell’ospitalità è il rapporto uno a uno, devi seminare tutte le mattine. C’è gente che risponde a ogni commento su Instagram. Vuol dire colpire il cliente uno a uno. I contatti valgono solo se li seguite. Vi sembra normale che Lisbona e Atene hanno un ‘Bar Show’ e in Italia no? Ad Atene, che non è meglio di Roma, c’è la cultura del divertirsi”.
Patrick Pistolesi (metà italiano e metà irlandese), ha lavorato con Alain Ducasse e Gordon Ramsey, è stato sempre influenzato dall’ambiente del bar, della parte notturna: “Ho sempre voluto un bar nella mia vita. Abbiamo aperto un anno fa il Drink Kong, un gorillone, che poi sarei io. Dopo ho compreso l’importanza del marchio. Sono fortunatissimo perchè ho una squadra incredibile. Noi siamo un bar che crede nel rapporto umano. Chi viene da noi è perchè vuole essere rassicurato”.
All’interno del Palazzo dei Congressi c’era anche un’aerea con cinquanta sfumature di Gin, produttori e distributori che hanno raccontato, e fatto degustare, i loro migliori spiriti di ginepro.
Inoltre è stato creato un “Mexico Village“, un cocktail bar in stile messicano dedicato a tutti gli spiriti di provenienza messicana: i noti Tequila e Mezcal e anche Sotol, Bacanora, Rum, Pox e Sciroppi.
Come ha raccontato Roberto Tardelli, noto bartender del Dabass: “il mondo del Tequila è un mercato in espansione. C’è un’attenzione per la ricercatezza. Il Tequila è un prodotto che si presenta al 100% puro, non ha scarti, tutto quello che non è utilizzato viene poi riciclato. Meglio approcciare al Tequila con un prodotto medio alto: 100% agave blu, che si trova in un piccolo appezzamento di terra in Messico. Soffice al palato. Per una verticale si può iniziare con Ocho (Compagnia dei Caraibi) passando per Curado (una via di mezzo tra Tequila e un Mezcal) e finire con un Mezcal“.
Il Mezcal è agave cotto. Il maestro che miete deve sapere quale taglio applicare alla pianta (in genere dopo sette anni di vita) e prenderne solo il cuore che va in cottura. La tradizionale cottura nei forni a terra dona una nota amara e affumicata al Mezcal che, diversamente, non è presente nel Tequila. Le foglie d’agave blu vengono cotte al vapore, ne risulta un aspetto più limpido che lo ha reso famoso. Occorrono due distillazioni: con le fibre della pianta e poi senza. Il materiale dell’alambicco può essere il rame o la terracotta oppure l’acciaio (quello industriale).
Tra le offerte più interessanti le masterclass (alcune iniziate in ritardo) con produttori internazionali.
Alexander Frezza ha condotto la masterclass sul Liquore Strega – Storia di un’antica ricetta che si tramanda da sei generazioni. Un’azienda a conduzione familiare, moderna e contemporanea allo stesso tempo. Giuseppe Alberti è stato il fondatore nel 1860. Come simbolo è stata la ‘strega’. Benevento era conosciuta come la città delle streghe. Lo stabilimento è rimasto pressochè uguale negli anni. La ricetta è fatta da: ingredienti, dosaggi e metodo per realizzare un digestivo che non è amaro come gli altri. Ogni spezia ha una storia a sè.
Altro punto di forza dell’azienda è stata sempre la pubblicità su cui ha investito: manifesti realizzati da artisti nel corso del Novecento e i caroselli.
La masterclass Macallan highland single malt: an exploration of oak, spirit & provenance è stata condotta da Nicola Riske. L’azienda utilizza botti spagnole di cinque anni, barili di quercia da 3900 litri. La tostatura delle botti è gentile. Il colore Macallan è naturale. I sentori sviluppati sono: toffee, caramello, arancio, leggera sapidità e speziatura. Quello che ho più ho apprezzato è lo Sherry oak cask, particolarmente profumato per la cui conservazione si usano botti di quercia europea. L’Estate ha un gusto aromatico e rotondo.
Per il mondo del gin Louise Conn ha presentato la masterclass di The Botanist Islay dry gin artigianale. Questo Gin è prodotto dalla distilleria Bruichladdich, che si trova in Scozia sull’isola di Islay (una delle Ebridi) con soli 3000 abitanti. Dalla sua data di costruzione, 1881, la distilleria, fondata da tre fratelli, non è cambiata molto. Un mercante di Londra, allontanato da una guardia di sicurezza aziendale, decise di acquistare la distilleria per sette milioni di pounds. Nel 2001 fu rimodernata, riaperta e oggi vi lavorano circa 100 persone. La lenta distillazione a pressione avviene in un alambicco (utilizzando componenti del primo Lomond) largo e ampio, chiamato confidenzialmente: Ugly Betty (Brutta Betty). Questa distilleria è l’unica a produrre gin con questo tipo di alambicco.
Tutti le botaniche usate sono delle isole scozzesi. Ci sono botanici full time della distilleria adibiti alla raccolta a mano delle piante per la produzione di Botanist. Sono circa 22 le piante raccolte a mano, unite poi ad agrumi e semi. Le piante vengono essiccate e tagliate con acqua della sorgente del territorio. Sulla lingua ha una consistenza setosa e si presenta versatile per diversi tipi di cocktail. Al naso un bouquet di ginepro e agrumi e poi gradualmente emergono le altre botaniche. In finale si avverte anche la menta e il biancospino.
Interessante anche la masterclass di The Glenlivet con diversi anni di invecchiamento 18, 21, 25 e un single cask. Non solo per la qualità dei prodotti ma anche per aver sperimentato la differenza di percezioni nella degustazione “alla cieca”. The Glenlivet iniziò la sua produzione nel 1822 quando era ancora illegale. Poi, pagando le imposte, divenne legale. Il single malt scotch whisky di 21 anni si presenta con un bel color ambra, sentore alcolico meno predominante, secco, mandorle tostate, caramello, gusto profondo e persistente. Nella degustazione alla cieca, quando quando si è stimolati da suggestioni dovute alla musica o non si è distratti dall’ambiente, è emerso anche un sentore di liquirizia.
Il XXV ha un color ambra più scuro, forte speziatura, profumi complessi, sentori balsamici, dolcezza del caramello, persistenza, rotondo. In bocca pastoso, gusto pieno. Un whisky da meditazione davanti a un camino. Il Single cask (una sola botte), invecchiamento di 15 anni, solo 200/300 bottiglie, colore naturale e 59 gradi. Colore tra ambra e sherry, secco, sentore di cherry, prugna, frutti rossi.
Un’altra masterclass molto attesa è stata Jack Daniel’s Tennessee Rye condotta da Francesco Spenuso che ha presentato il Rye, whiskey di segale. L’assenza di orzo in America ha portato all’utilizzo della segale per la produzione di whiskey. Già nel 1720 c’erano due tipologie di whiskey: Pennsylvania style (100% segale) secco e ruvido e Maryland style (80% segale e 20% mais) più morbido.
Da quest’ultima tipologia si è sviluppato, nel 1790, il Tennessee Kentucky style (80% mais, 20% segale), molto più dolce. Fino al 1860 il Rye whiskey era il più bevuto. Durante la Guerra civile (1861 – 1865) il whiskey è stato usato soprattutto come medicinale. Dopo, dal 1870, si diffonde il whiskey di mais, che sarà esportato, dal 1950, anche in Europa ed è oggi il più bevuto. La Jack Daniel’s usa il filtraggio in carbone, goccia a goccia e botti tostate di quercia americana e carbonizzate. L’acqua utilizzata è priva di ferro. Quest’ultimo insieme ai lieviti produce cattivi sentori. Per capire l’estensione dell’azienda basta considerare che ha un centinaio di palazzine a 7 piani ed ha una produzione di 200 milioni di litri l’anno.
Dal 2008 Jack Daniel’s inizia a sviluppare il proprio Rye Whiskey e nel 2016 lancia il suo primo Rye, ideato dal Master Distiller n. 7. Rispetta il disciplinare dei Tennessee Whiskey, insieme ad altre 25 distillerie.
Prodotto per il 51% con un solo cereale, filtrato in carbone, botti carbonizzate, maturazione minima di due anni. Realizzato con il 18% di mais, il 70% di segale e il 12% di orzo. Mentre il Jack Daniel’s n. 7 è fatto con l’80% di mais e l’8% di segale. La fermentazione dura sei giorni e la filtrazione goccia a goccia cinque giorni. L’azienda produce in proprio le botti di quercia carbonizzata. Le palazzine, tranne il VI e VII piano, ospitano il Rye. Il classico n. 7 fa 40 gradi e il Rye 45, per il resto hanno la stessa acqua, stessa fermentazione, stessa distillazione, stesso filtraggio e stesse botti.
Il Rye al naso sviluppa sentori di frutta matura, quercia tostata e chicco alcolico. Sapori ricchi, note di caramello, erba bagnata, menta, crosta di pane e gusto prolungato. Il Single Barrel Rye riposa al VI e al VII piano delle palazzine. Il Single Barrel perde il 16%, invece del 5 % del prodotto. Per ogni barile vengono prodotte 240 bottiglie. Questo whiskey dall’intrigante complessità, da meditazione, ha un buon rapporto qualità/prezzo: circa 32 euro + Iva.
Riccardo Rossi (barmanager Freni e Frizioni) ha condotto la masteclass: La Ruta del Pisco. Il suo approccio è avvenuto in occasione di un suo viaggio in Perù. Sapeva che lì facevano il Pisco e dietro c’era un mondo. Così si è innamorato del Perù e del Pisco. Riccardo racconta come “a marzo di quest’anno sono tornato in Perù per visitare tutte le zone di produzione. Il Pisco è un distillato di mosto di uva, un mosto fermentato, non subisce invecchiamento, a differenza del brandy. L’uva viene pressata e solo alcuni fermentano con le bucce. Ha quasi 500 anni di storia, non ha nessun agente contaminante ed è un prodotto bandiera del Perù”. Il Perù ha 84 microclimi su i 117 complessivi della terra e ha vinto il premio, per sette anni di seguito, come migliore destinazione enogastronomica.
Gli spagnoli conquistarono nel 1500 il Perù ed importarono il cristianesimo che aveva bisogno, per le sue cerimonie, del vino.
Così l’uva venne importata dalle Canarie e trovò una zona fertile lungo la costa. Così il Perù, in pochi anni, divenne il più grande produttore di vino in Sudamerica. La prima distilleria è stata un monastero a nord di Lima. Il Pisco iniziò a viaggiare dal porto di Pisco in tutto il Sudamerica. Pisco era la zona, la valle e il fiume. Arrivò poi a San Francisco. Il Pisco può essere prodotto in sole cinque zone del Perù: da Lima verso sud. Un’uva che, in una zona con grande escursione termica dove non piove da trenta anni, perde umidità, concentra gli zuccheri e prende l’acqua dal sottosuolo, da falde acquifere. Ci sono otto tipi di uva e tre tipologie di Pisco: quello puro, acholado (un blend) e mosto verde (che non viene portato a fermentazione completa). Per un litro di Pisco ci vogliono 6 kg. di uva.
Le correnti fredde dal polo sud bloccano l’evaporazione e la pioggia. L’uva, ricca di zuccheri, viene vendemmiata a marzo.
Tra i piacevoli assaggi l’Amaro Nonino – 100% vegetale, invecchiamento naturale in barriques e piccole botti – e le aranciate e limonate bio Sanpellegrino, con ingredienti provenienti da agricoltura biologica. Immancabile il Select, il bitter nato nel 1920 nel sestiere di Castello, protagonista dell’autentico spritz veneziano. Tra le sue 30 erbe aromatiche anche le bacche di ginepro e le inconfondibili radici di rabarbaro.
Molto apprezzata la Food Experience che è stata però un po’ emarginata all’esterno. Difficile fare uno spuntino e bere qualcosa insieme ai drink all’interno. Potrebbero essere inseriti, come è stato per Fiorucci, dei punti food all’interno. Interessante, e di qualità, la presenza della musica jazz live. Arrivederci al prossimo anno.