Voglia di Sana’a e di Yemen
Sana’a è un sogno, un miraggio, Le mille e una notte e il desiderio di tornare in Yemen. Per non dimenticare.
Pier Paolo Pasolini: “La sola ricchezza dello Yemen è la sua bellezza”.
Pasolini aveva ragione ma il petrolio yemenita, principale risorsa del Paese, fa gola a molti. Sana’a, forse la biblica e leggendaria Città di Sem, significa “forza” e “vigore” e speriamo che la sua forza sia resistenza alla guerra e alla carestia. Ci auguriamo che la società civile possa preservarne la bellezza filmata da Pasolini. La città vecchia, una gemma su un altopiano (a 2000 m di altezza) incastonata tra le montagne, è stata dichiarata patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Attualmente la visita, a quella che da 2500 anni è la capitale yemenita, è sconsigliata, se non impossibile, ma ho avuto la fortuna di soggiornarvi e voglio raccontarla nella speranza che il Medio Oriente, conteso da troppi interessi, torni ad essere una terra di pace di nuovo visitabile. Non possiamo dimenticare lo Yemen e la tragedia che lì si sta consumando.
Il viaggio in Yemen è stato unico, ad inizare dal volo aereo con la compagnia Yemenia Airways. Già al decollo da Roma ci eravamo resi conto che eravamo gli unici occidentali sul volo. Famiglie variopinte e uomini d’affari tornavano probabilmente in patria e sugli schermi incorniciati negli schienali dei sedili dell’aereo veniva proiettata, a intervalli, la distanza dalla città santa, La Mecca. Poco prima dell’atterraggio ecco che le donne a bordo hanno iniziato a coprirsi con vesti nere e a indossare il tradizionale niqab (il velo che lascia scoperti solo gli occhi). Tolti gli abiti occidentali, e racchiuse le belle chiome nere nel velo, tornavano nella loro società e, all’improvviso, la nostra visione era diventata in bianco e nero.
Già attraversare il centro di Sana’a, con le sue case rosse merlettate di bianco, dava l’emozione di entrare in un sogno. Si dice che a Sana’a puoi camminare per un chilometro in qualsiasi direzione e non incontrare mai un edificio moderno. Il nostro albergo, al centro di Sana’a, era particolarmente bello: una di quelle case-torri (ce ne sono circa 14.000) strutturate per difendersi dai nemici. La loro struttura abitativa prevede un primo piano per le stanze di ricevimento, il secondo per le donne e i bambini e al terzo e al quarto piano ci sono le camere da letto, i bagni e la cucina. All’ultimo piano si trova il mafraj (sala con vista), dove gli uomini si intrattengono a parlare e a masticare il qat (foglie a effetto stimolante).
Il pianterreno e il primo piano sono in genere costruiti in mattoni cotti decorati e impermeabilizzati con intonaco a calce e qadad. Il qadad è una antica tecnica che risale a più di mille anni fa. Con un intonaco a calce, trattato con calce spenta e oli e grassi, si realizza, con un procedimento lungo anche 100 giorni, una superficie in gesso impermeabile. Gli altri piani sono in mattoni di fango, il miglior isolante al mondo per mantenere gli ambienti interni freschi durante il giorno e caldi di notte. A Sana’a l’escursione termica tra il giorno e la notte è forte. La calce sulle facciate serve a proteggere il fango dalla pioggia e a comporre straordinarie decorazioni geometriche. Le finestre tipiche di queste case-torri sono in alabastro o a intarsi di vetro colorato.
La nostra camera era al quinto piano, senza ascensore naturalmente, arredata in stile arabo con meravigliose finestre a vetri colorati e quando entrava la luce la stanza era attraversata da raggi di tutti i colori. A rendere ancora più magica l’atmosfera era la preghiera del muezzin che attraversava tutta la città cinque volte al giorno, la prima all’alba. Svegliarsi con questo canto non è fastidioso ma suggestivo, ti rendi conto immediatamente di essere in un’altra parte del mondo. Ma la sorpresa più bella era il mafraj all’ultimo piano dell’hotel.
Sulla sua terrazza con panorama a volo d’uccello su tutta Sana’a facevamo colazione all’aperto e i nostri occhi perlustravano tutta la città dell’alto, come fossimo dei droni, la sola differenza era che non volavamo. Cercavamo di rientrare sempre prima del tramonto per rifugiarci nel mafraj, gustare dall’altana del terrazzo un tè e tutti i colori del giorno e della sera che dipingevano Sana’a. Con il calare del sole le migliaia di finestre ad alabastro e a vetri colorati di Sana’a si illuminavano e dipingevano la città di luci colorate, all’improvviso eri dentro la magia.
Il primo giorno l’idea di lasciare quella visuale privilegiata e uscire dall’hotel – cosa avrei trovato fuori tra le strade polverose? Avrei potuto girare da sola indisturbata con i miei vestiti occidentali? – mi ha creato un attimo di insicurezza. Ma l’esperienza è stata subito tranquillizzante.
L’accoglienza degli yemeniti mi ha commosso. Sebbene bionda, e quindi ‘fosforescente’, e in abiti occidentali, nessuno uomo mi ha mai guardato con insistenza o con sguardo riprorevole. Noi riusciamo ad essere più intolleranti nei confronti dei diversi. Per gli yemeniti, prima che l’appartenenza alla nazione, viene quella al proprio clan e alla famiglia. Ben presto ho scoperto che il loro modo di vestire era più funzionale al clima, i jeans e le magliette sudati si incollano addosso.
Il posto ideale per fare acquisti è il mercato, dove il tempo scorre a mercanteggiare. Quello di di Sana’a è il più antico della penisola arabica ed è un affascinante labirinto colorato, suddiviso in circa quaranta settori merceologici, oltre 1500 botteghe commerciali e laboratori artigianali. Tra i negozi e botteghe più incredibili sono quelle di oreficerie dalle porte totalmente aperte e le vetrine cariche di gioielli a vista, segno che furti e borseggi sono una rarità. Il suq dei tessuti è quello più ricco e affascinante: sete cinesi, stoffe coloratissime, di produzione locale o importate dall’India, dalla Siria o dall’Egitto oppure giacche da uomo anche occidentali ma non completi con pantaloni.
Così ho acquistato una veste larga e nera e il niqab. La veste larga consente al vento di passare e tenere fresco il corpo e il niqab protegge la testa e il viso dal sole. Avevo bisogno però di farmi insegnare da una donna come indossare il niqab. Le donne si incontravano soprattutto al suq (mercato). Per avvicinare le donne yemenite devi essere da sola, per loro è disdicevole farsi vedere in compagnia di un uomo straniero anche se è tuo marito.
Girovangando per il suq dei tessuti e abiti continuavo a chiedermi: ma per chi sono questi vestiti sgargianti, colorati, con scollature e biancheria intima seducenti, qui le donne sembrano quasi tutte uguali e inesorabilmente vestite con tuniche nere! Avendo qualche domanda a cui dare risposta mi sono rivolta ad alcune donne all’interno di un negozio di stoffe. Sono state subito gentilissime e sembravano contente di insegnarmi ad indossare un niqab. Inoltre erano curiose della mia provenienza e abitudini. Condividere con altre donne, anche se dall’altra parte del mondo, ha sempre un sapore speciale misto a istintiva solidarietà e sorellanza.
Si sono dimostrate aperte e disponibili a rispondere a ogni mia domanda. Così ho scoperto che i vestiti colorati e seduttivi come la biancheria intima osé erano destinati ai loro uomini, ai loro mariti. Mi hanno detto: “Noi in pubblico siamo uguali per tutti, nella vita familiare e intima vogliamo essere ammirate e conquistare i nostri mariti. Non ci interessa attirare l’attenzione maschile di estranei”. Confrontando ho considerato quanto le scollature o le minigonne che non lasciano spazio alla fantasia di molte femmine nostrane potessero essere, soprattutto nei luoghi di lavoro, inaproppriate e a beneficio di bieco maschilismo.
Quando ho rincalzato: “Ma non è limitante essere obbligate ad andare in giro tutte coperte’?”, loro mi hanno risposto che è una loro scelta e guardare senza essere viste, anche nelle espressioni, è spesso un vantaggio. L’ho compreso quando, al ritorno del viaggio, ho tolto il niqab, all’improvviso mi sono sentita “nuda”, scoperta, come se la mia anima, i miei sentimenti e le mie emozioni fossero alla mercé di tutti. Con questo non voglio dire che indossare il niqab sia la scelta migliore ma ha i suoi aspetti positivi, la gente non ti legge in viso e tra le pareti domestiche sei libera. Noi donne occidentali siamo per la libertà ovunque e questo può voler dire anche indossare il niqab solo quando conviene.
A Sana’a se le donne indossano il niqab gli uomini portano sul ventre una sorta di coltello-pugnale con una corta lama curva: la jambiya, tipico accessorio d’abbigliamento maschile a partire dai 14 anni. Si tratta di un’arma per la difesa personale, oggi è soprattutto uno status symbol, caratteristico dell’uomo quando diventa adulto ed è un oggetto per comunicare alla comunità il proprio prestigio all’interno della tribù ed è indossato anche dalle alte cariche dello stato. Può essere estratta solo in caso di estrema necessità o in occasione di alcune ricorrenze e festività (la danza dei coltelli, con uso delle jambiya, è ancora oggi parte integrante del matrimonio yemenita).
Il modo migliore per entrare a Sana’a è da Bab al-Yaman ( arabo : باب اليمن ), letteralmente la “Porta dello Yemen”. Si tratta della porta principale all’estremità meridionale della vecchia cinta muraria fortificata di Sana’a. Fu costruita nel XVII secolo dai Turchi.
Appena oltrepassata si entra subito in contatto con la splendida architettura yemenita con le alte case torreggianti. Un itinerario consigliato è quello dei caravanserragli (samsarah), strutture destinate ad ospitare i mercanti e i loro animali. Molti sono in rovina ma alcuni sono stati trasformati in residenze o centri commerciali di artigianato.
Alle spalle di muri di fango e nei cortili delle abitazioni spesso si trovano rigogliosi giardini e frutteti, sono visibili dai palazzi più alti e dai mafraj. Tra le case sono incastonati gli orti che rendevano la città autosufficiente quanto a frutta e verdura. Mentre cammini e incroci gli sguardi delle donne velate ti stupisci quando da lontano qualcuno le riconosce, solo dallo sguardo, e le saluta. Tra le visite imperdibili quella al National Museum, ricco di stupende collezioni di arte antica.
Un’esperienza imperdibile, dove il bagno in uno stabilimento pubblico è tradizione, è l’hammam. È uno dei modi migliori per entrare in contatto con la cultura e la gente del posto. Sono previsti settori o giornate diverse per uomini e donne, rigorosamente separati. Nella città vecchia sono all’interno di strutture antiche, con poche aperture, sedute di marmo e il gocciolio dell’acqua di sottofondo. Lo scrubbing pulisce e rigenera la pelle.
In Yemen l’età media è molto bassa, questo fa si che ci sono molti bambini, che sono simpaticamente curiosi. Ci hanno sorriso ovunque e volevano sapere tutto di noi. Spesso ci hanno invitato nelle loro case. È stato un piacere parlare con loro e conoscere la loro realtà, noi eravamo curiosi almeno quanto loro. Ora sono le vittime maggiori dei conflitti nel Paese. Arrivederci, a presto.
In viaggio con Marco De Felicis